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Piccoli Pellegrini di Speranza – Giubileo diocesano di bambini e ragazzi

Piccoli Pellegrini di Speranza

Giubileo diocesano di bambini e ragazzi

1 maggio 2025 -Santuario di Pierno

Il Giubileo indetto dal Papa per il 2025 è per tutti un’occasione di Grazia, in cui sperimentare intensamente la gioia del tornare a Dio, dell’appartenere alla Chiesa, dello sperare insieme a tutta l’umanità un mondo nuovo, più giusto e più fraterno.

Desideriamo condividere questo “dono” anche con i nostri bambini e ragazzi vivendo insieme una giornata che li metta al centro e li faccia essere protagonisti.
Invitiamo, per vostro tramite, tutte le Comunità parrocchiali della diocesi a partecipare giovedì 1 maggio 2025 presso il Santuario della Madonna di Pierno al Giubileo diocesano di bambini e ragazzi per essere anche loro Piccoli Pellegrini di Speranza”.

Mons. Ciro Fanelli accompagnerà i Piccoli Pellegrini in questo pellegrinaggio.

Catechisti, genitori e i Piccoli Pellegrini sono invitati ad iscriversi al Giubileo entro sabato 5 aprile 2025 tramite il Responsabile/catechista della propria parrocchia a ucd.melfi@gmail.com con il modulo che viene inviato in allegato insieme alla locandina.

Chiediamo, cortesemente, di rispettare la scadenza indicata per comprensibili motivi legati alla logistica, suggeriamo un abbigliamento comodo per tutti.

Ad ogni pellegrino verrà consegnato un gadget, a tutti chiediamo un contributo di partecipazione di €.5,00 che andrà a sostenere un progetto della Fondazione Missio come abbiamo già fatto in occasione della Giornata Mondiale dei Bambini il 26 maggio 2024 a Rionero in Vulture. Domenica 23 marzo, al II Incontro di Formazione Unitaria consegneremo la Locandina ad ogni Parrocchia.

Certi che accoglierete questo invito, vi auguriamo di proseguire il cammino che ci vede protesi tutti insieme verso la Pasqua.

Venosa, 16 marzo 2025

L’Equipe diocesana dell’Ufficio Catechistico
Suor Barbara, Gennaro, Giuseppina,
Lucia, Marilena, Savina e Angela

Per prepararsi al Giubileo diocesano di bambini e ragazzi

Materiali utili per la preparazione

Note tecniche

Brochure Giubileo


La parola N. 7 marzo 2025

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L’editoriale

HOPE

Speranza. È questo il tema che abbiamo scelto per il numero di marzo del nostro giornale diocesano. Una parola che rimbalza con particolare energia in questo anno giubilare diventando protagonista del motto ufficiale “pellegrini di speranza”. Un motto che rimanda ad uno sguardo sulla virtù della speranza, fondamento della vita cristiana insieme alle altre due virtù teologali che sono la fede e la carità. Un richiamo ad essere tutti responsabili costruttori di un mondo migliore. Il logo scelto per il Giubileo è un’immagine con quattro figure stilizzate che indicano l’umanità proveniente dai quattro angoli della terra. “Una abbracciata all’altra, per indicare la solidarietà e la fratellanza che devono accomunare i popoli, con l’apri fila aggrappato alla croce” ha spiegato Mons. Fisichella durante la presentazione del logo. La parte inferiore della Croce, poi, si prolunga trasformandosi in un’ancora, metafora della speranza, che si impone sul moto ondoso così come attraversato dalle onde è il cammino della vita. Una virtù, la speranza, che il nostro Vescovo nel suo intenso editoriale ci ricorda essere la “virtù creativa per antonomasia”. E in questo numero abbiamo cercato di raccontare le varie sfaccettature della speranza che coinvolgono la nostra Diocesi. Speranza come accoglienza nella storia del giovane Daniel che, partito dall’Etiopia con la sua mamma, dopo tante sofferenze, arriva in Basilicata per ricevere cure mediche e trova una casa e tanto affetto. Speranza come sogno di un futuro migliore nei seminari di vita nuova tenuti nelle carceri. Speranza di guarigione dalla malattia o accettazione del dolore in un abbraccio che avvicina a Dio. Speranza che porta alla pace. Speranza che ci fa pellegrini raccontando il Giubileo delle comunicazioni sociali. Speranza che abbiamo immaginato come una strada, come quella raffigurata in copertina. Una strada di cui intuiamo solo un pezzo. Una strada dritta o tortuosa. Una strada, quella della speranza, che vorremmo sempre seguire per cercare di compiere la volontà di Dio.

Lucia Nardiello
Direttore Responsabile

La parola N.7Indice

SUPERARE INSIEME LA CRISI IDRICA NELLA VALLE DELL’OFANTO E DEI TERRITORI DI LAVELLO, MELFI E MONTEMILONE

CIRO FANELLI

VESCOVO DI MELFI – RAPOLLA – VENOSA

 

APPELLO

SUPERARE INSIEME LA CRISI IDRICA

NELLA VALLE DELL’OFANTO E DEI TERRITORI DI LAVELLO, MELFI E MONTEMILONE

 

  1. Unisco la mia voce a quella degli agricoltori della Valle dell’Ofanto e dei territori di Lavello, Melfi e Montemilone che chiedono risposte urgenti per dare certezza al loro lavoro e alle loro famiglie. Infatti, sia in occasione della Visita Pastorale e sia in queste ultime, ore ho accolto con profonda e sincera apprensione l’allarme che si leva dagli agricoltori della Valle dell’Ofanto e dei territori di Lavello, Melfi e Montemilone. Essi sono i custodi di una terra generosa, oggi messa a dura prova dall’emergenza idrica e dalla crisi industriale, due piaghe che scuotono non solo la sicurezza delle nostre comunità del Vulture-Melfese, ma anche le nostre coscienze. La siccità e la gestione delle risorse idriche hanno prostrato un intero comparto, quello agricolo in particolare, con conseguenze drammatiche per il lavoro, le famiglie e il tessuto sociale del nostro territorio.
  2. In questo problematico contesto, che accentua sofferenze e incertezze, apprendo con soddisfazione che la Regione Basilicata ha assegnato fondi per il recupero della Diga del Rendina. Questa scelta può diventare un segno di speranza e può contribuire a far ripartire una possibilità concreta di riscatto del nostro territorio e del mondo agricolo in particolare; auspico che questa attenzione si possa concretizzare così da far diventare l’attenzione al mondo agricolo una delle priorità strutturali per la crescita economica delle nostre comunità; infatti, l’agricoltura è una delle vocazioni specifiche della terra di Basilicata. Confido, pertanto, nell’impegno di quanti hanno ruoli di responsabilità nelle istituzioni. Questa infrastruttura potrebbe diventare un’opera segno nella nostra Regione, tale da poter sostenere sforzi e fatiche dei nostri agricoltori ed aprire in questo modo anche squarci concreti di opportunità per il futuro.
  3. Il mio auspicio è che nel dialogo franco e collaborativo fra tutte le forze in campo, animate dal bene comune, si possa operare con unità di intenti e fermezza d’azione per salvaguardare un bene di eccellenza della nostra Regione. Chiedo, a coloro che hanno responsabilità istituzionali, di mettere in campo ogni sforzo, anche ricorrendo a misure straordinarie, per dare concretezza ad attese e speranze!
  4. Dalle interlocuzioni che ho avuto in queste ultime ore con i rappresentanti del mondo agricolo della Valle dell’Ofanto e dei territori di Lavello, Melfi e Montemilone, resto sempre più convinto che non solo è imprescindibile un impegno corale delle istituzioni, ma anche che si debba procedere con tempestività, scongiurando ritardi e inefficienze. L’acqua, insegna Papa Francesco facendo eco alla Dottrina sociale della Chiesa, non è solo una risorsa: è un diritto fondamentale. È condizione essenziale per la dignità di chi, con fatica e sacrificio, coltiva la terra e nutre le nostre comunità; in ogni messa il Sacerdote celebrante presentando il pane per l’Eucaristia prega dicendo: “benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo, dalla Tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo”.
  5. Per questa ragione, umilmente, spinto unicamente dalla paternità evangelica, senza invadere competenze e ruoli altrui, unisco la mia voce a quella di quanti chiedono un intervento rapido e risolutivo. La dichiarazione dello stato di emergenza idrica potrebbe essere una via da percorrere. C’è, infatti, l’urgenza assoluta da parte degli agricoltori di avviare l’annuale programmazione agricola.
  6. Agli agricoltori, ai lavoratori dell’indotto e alle loro famiglie esprimo la mia più sentita e paterna vicinanza e solidarietà. La loro “battaglia” per l’acqua è una battaglia di giustizia, di dignità e di futuro. Come cristiani, non possiamo rimanere indifferenti davanti alle sofferenze di chi, con il proprio lavoro quotidiano, contribuisce al bene comune e alla solidità economica della propria famiglia. Solo camminando insieme, con fiducia e senso di responsabilità, si può fare in modo che l’acqua torni a essere fonte di vita e di prosperità per la nostra terra.

Melfi, 24 marzo 2025.

+ Ciro Fanelli
Vescovo


Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2025

Camminiamo insieme nella speranza

Cari fratelli e sorelle!

Con il segno penitenziale delle ceneri sul capo, iniziamo il pellegrinaggio annuale della santa Quaresima, nella fede e nella speranza. La Chiesa, madre e maestra, ci invita a preparare i nostri cuori e ad aprirci alla grazia di Dio per poter celebrare con grande gioia il trionfo pasquale di Cristo, il Signore, sul peccato e sulla morte, come esclamava San Paolo: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» ( 1Cor 15,54-55). Infatti Gesù Cristo, morto e risorto, è il centro della nostra fede ed è il garante della nostra speranza nella grande promessa del Padre, già realizzata in Lui, il suo Figlio amato: la vita eterna (cfr Gv 10,28; 17,3).

In questa Quaresima, arricchita dalla grazia dell’Anno Giubilare, desidero offrirvi alcune riflessioni su cosa significa camminare insieme nella speranza, e scoprire gli appelli alla conversione che la misericordia di Dio rivolge a tutti noi, come persone e come comunità.

Prima di tutto, camminare. Il motto del Giubileo “Pellegrini di speranza” fa pensare al lungo viaggio del popolo d’Israele verso la terra promessa, narrato nel libro dell’Esodo: il difficile cammino dalla schiavitù alla libertà, voluto e guidato dal Signore, che ama il suo popolo e sempre gli è fedele. E non possiamo ricordare l’esodo biblico senza pensare a tanti fratelli e sorelle che oggi fuggono da situazioni di miseria e di violenza e vanno in cerca di una vita migliore per sé e i propri cari. Qui sorge un primo richiamo alla conversione, perché siamo tutti pellegrini nella vita, ma ognuno può chiedersi: come mi lascio interpellare da questa condizione? Sono veramente in cammino o piuttosto paralizzato, statico, con la paura e la mancanza di speranza, oppure adagiato nella mia zona di comodità? Cerco percorsi di liberazione dalle situazioni di peccato e di mancanza di dignità? Sarebbe un buon esercizio quaresimale confrontarsi con la realtà concreta di qualche migrante o pellegrino e lasciare che ci coinvolga, in modo da scoprire che cosa Dio ci chiede per essere viaggiatori migliori verso la casa del Padre. Questo è un buon “esame” per il viandante.

In secondo luogo, facciamo questo viaggio insieme. Camminare insieme, essere sinodali, questa è la vocazione della Chiesa. I cristiani sono chiamati a fare strada insieme, mai come viaggiatori solitari. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire da noi stessi per andare verso Dio e verso i fratelli, e mai a chiuderci in noi stessi. Camminare insieme significa essere tessitori di unità, a partire dalla comune dignità di figli di Dio (cfr Gal 3,26-28); significa procedere fianco a fianco, senza calpestare o sopraffare l’altro, senza covare invidia o ipocrisia, senza lasciare che qualcuno rimanga indietro o si senta escluso. Andiamo nella stessa direzione, verso la stessa meta, ascoltandoci gli uni gli altri con amore e pazienza.

In questa Quaresima, Dio ci chiede di verificare se nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nei luoghi in cui lavoriamo, nelle comunità parrocchiali o religiose, siamo capaci di camminare con gli altri, di ascoltare, di vincere la tentazione di arroccarci nella nostra autoreferenzialità e di badare soltanto ai nostri bisogni. Chiediamoci davanti al Signore se siamo in grado di lavorare insieme come vescovi, presbiteri, consacrati e laici, al servizio del Regno di Dio; se abbiamo un atteggiamento di accoglienza, con gesti concreti, verso coloro che si avvicinano a noi e a quanti sono lontani; se facciamo sentire le persone parte della comunità o se le teniamo ai margini. Questo è un secondo appello: la conversione alla sinodalità.

In terzo luogo, compiamo questo cammino insieme nella speranza di una promessa. La speranza che non delude (cfr Rm 5,5), messaggio centrale del Giubileo, sia per noi l’orizzonte del cammino quaresimale verso la vittoria pasquale. Come ci ha insegnato nell’Enciclica Spe salvi il Papa Benedetto XVI, «l’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: “Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” ( Rm 8,38-39)». Gesù, nostro amore e nostra speranza, è risorto e vive e regna glorioso. La morte è stata trasformata in vittoria e qui sta la fede e la grande speranza dei cristiani: nella risurrezione di Cristo!

Ecco la terza chiamata alla conversione: quella della speranza, della fiducia in Dio e nella sua grande promessa, la vita eterna. Dobbiamo chiederci: ho in me la convinzione che Dio perdona i miei peccati? Oppure mi comporto come se potessi salvarmi da solo? Aspiro alla salvezza e invoco l’aiuto di Dio per accoglierla? Vivo concretamente la speranza che mi aiuta a leggere gli eventi della storia e mi spinge all’impegno per la giustizia, alla fraternità, alla cura della casa comune, facendo in modo che nessuno sia lasciato indietro?

Sorelle e fratelli, grazie all’amore di Dio in Gesù Cristo, siamo custoditi nella speranza che non delude (cfr Rm 5,5). La speranza è “l’ancora dell’anima”, sicura e salda. In essa la Chiesa prega affinché «tutti gli uomini siano salvati» ( 1Tm 2,4) e attende di essere nella gloria del cielo unita a Cristo, suo sposo. Così si esprimeva Santa Teresa di Gesù: «Spera, anima mia, spera. Tu non conosci il giorno né l’ora. Veglia premurosamente, tutto passa in un soffio, sebbene la tua impazienza possa rendere incerto ciò che è certo, e lungo un tempo molto breve» ( Esclamazioni dell’anima a Dio, 15, 3).

La Vergine Maria, Madre della Speranza, interceda per noi e ci accompagni nel cammino quaresimale.

Roma, San Giovanni in Laterano, 6 febbraio 2025, memoria dei Santi Paolo Miki e compagni, martiri.

PREGHIERA CORALE, AFFETTUOSA E GRATA PER PAPA FRANCESCO

CIRO FANELLI

VESCOVO DI MELFI – RAPOLLA – VENOSA

 

PREGHIERA CORALE, AFFETTUOSA E GRATA PER PAPA FRANCESCO

Carissimi,

ci sono momenti, come questi del ricovero in ospedale di Papa Francesco, in cui il nostro legame ecclesiale con il Santo Padre deve manifestarsi visibilmente anche nell’affettuosa unione di preghiera per la Sua persona.

La nostra Diocesi con tutte comunità parrocchiali, in questi giorni in cui il Santo Padre è ricoverato presso il Policlinico A. Gemelli in Roma, si stringe con affetto attorno a lui, pregando e facendo pregare per la Sua piena guarigione.

Anche la nostra Diocesi di Melfi-Rapolla-Venosa, unita a tutte le Chiese che sono in Italia, desidera far sentire a Papa Francesco il suo affetto attraverso una preghiera corale, intensa e perseverante.

La nostra Chiesa locale ama il Papa e prega per lui in questo momento di fragilità e di sofferenza!

Con fiducia eleviamo al Signore la nostra invocazione nelle Sante Messe e in ogni altra preghiera comunitaria.

Chiediamo al Signore che sostenga Papa Francesco e gli dia il dono della guarigione, affinché attraverso il Suo Magistero egli possa continuare a guidare il cammino della Chiesa sui sentieri della comunione e della missione.

Invito, dunque, tutti i presbiteri a celebrare la Santa Messa per il Papa, e chiedo ad ogni comunità parrocchiale, ad ogni casa religiosa, a ogni cuore illuminato dalla luce della Fede di unirsi in preghiera, affinché il Signore lo custodisca per aiutarci ad essere autentici pellegrini di speranza.

La Vergine Maria, Madre della Chiesa e Regina degli Apostoli, interceda per il nostro amato Papa Francesco e faccia sentire al suo cuore l’affetto sincero di tutta la Chiesa e delle donne e degli uomini di buona volontà.

+ Ciro Fanelli
Vescovo

Preghiera e vicinanza al Papa

Preghiera e vicinanza al Papa

«Gli auguri per una pronta guarigione e la preghiera delle Chiese in Italia».

È quanto scrive la Cei nel suo sito www.chiesacattolica.it e sui suoi canali social riguardo a Papa Francesco che venerdì 14 febbraio, «al termine delle udienze, si ricovera al Policlinico Agostino Gemelli per alcuni accertamenti diagnostici e per proseguire in ambiente ospedaliero le cure per la bronchite in corso».

Fonte Cei

Guarda la registrazione del convegno – Oltre i confini: migrazioni e diritti umani

Oltre i confini: migrazioni e diritti umani

Sfide globali e risposte locali per le famiglie in una società più equa

Sabato 15 febbraio 2025 alle ore 17.00, presso il Salone degli Stemmi del Palazzo Vescovile di Melfi, si terrà un convegno su “Migrazioni e diritti umani”, organizzato dalla diocesi di Melfi-Rapolla-Venosa. Il vescovo, mons. Ciro Fanelli, attraverso l’ambito della Pastorale Sociale e della Legalità della Curia diocesana, ha invitato all’evento non solo gli organismi ecclesiali, ma anche i diversi soggetti istituzionali e le parti sociali coinvolti nel delicato e complesso tema della migrazione oggi. Sono stati chiamati a guidare il convegno i professori delle Università Pontificie in Roma Aldo Skoda, docente presso la Pontificia Università Urbaniana, e Vincenzo Rosito, professore del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, che svilupperanno il tema “Oltre i confini: migrazioni e diritti umani. Sfide globali e risposte locali per le famiglie in una società più equa”.

“L’evento -ha affermato il vescovo Fanelli – si pone l’obiettivo di analizzare il fenomeno delle migrazioni contemporanee non solo come una questione globale, ma anche nelle sue ricadute locali, cercando di comprendere le opportunità e le criticità che ne derivano, analizzandone le implicazioni sociali, culturali ed economiche e ponendo particolare attenzione al ruolo delle famiglie nel contesto di una società più giusta ed inclusiva”.

Il tavolo di riflessione del convegno intende offrire strumenti di lettura e risposte concrete alle sfide poste dai fenomeni migratori, valorizzando il dialogo tra istituzioni, accademici e comunità, con un focus particolare sulla effettiva tutela nel territorio diocesano dei diritti umani e sull’integrazione delle famiglie migranti. Infatti, la diocesi desidera chiarificare il ruolo delle comunità ecclesiali e delle istituzioni presenti nel territorio per promuovere una società più equa e solidale.

Il vescovo, nella convocazione del convegno, richiamando il pensiero di Papa Francesco, ha ribadito che le migrazioni non sono soltanto un fenomeno emergenziale, ma rappresentano un’opportunità per arricchire il tessuto sociale, favorire l’incontro tra culture diverse e promuovere una società più giusta. Da ciò devono scaturire politiche di accoglienza e integrazione in grado di porre in atto iniziative concrete, sia a livello istituzionale che comunitario, al fine di  garantire una reale inclusione dei migranti e assicurare sempre il rispetto della dignità di ogni persona.

Nell’ invitare le istituzioni, le parti sociali e il mondo della politica, il vescovo Fanelli ha ricordato che è necessario e urgente adottare un approccio inclusivo e costruttivo sulle tematiche dell’accoglienza e dell’integrazione, nella consapevolezza che questa scelta porta numerosi benefici sociali, culturali ed economici. “Un approccio sapienziale e profetico al fenomeno delle migrazioni – ha ribadito il presule – favorisce la coesione sociale, riducendo il rischio di marginalizzazione ed esclusione e contribuisce alla crescita economica, attraverso la valorizzazione delle competenze dei migranti. Inoltre, permette di costruire comunità più resilienti, fondate sul dialogo interculturale e sulla collaborazione tra diverse realtà. L’inclusione promuove il rispetto reciproco e rafforza il senso di appartenenza, elementi essenziali per una società equa e pacifica”.

L’incontro si inserisce in un percorso più ampio promosso dalla diocesi di Melfi-Rapolla-Venosa, volto a sensibilizzare l’opinione pubblica e a favorire un approccio accogliente e costruttivo alle tematiche dell’integrazione e pacifica convivenza tra esseri umani.

L’appuntamento, oltre ad essere rivolto al mondo ecclesiale e alle istituzioni, è aperto a tutti coloro che desiderano approfondire queste tematiche e contribuire alla costruzione di una società più giusta e rispettosa della dignità di ogni individuo.

Il coraggio di capovolgere la piramide

Pubblichiamo, per gentile concessione, il testo dell’intervento di S.E. REV.MA MONS. FELICE ACCROCCA, Arcivescovo Metropolita di Benevento, tenutosi il 10 gennaio 2025 durante l’incontro: “Aree interne: Nuove forme pastorali capaci leggere il presente e generare un cambiamento” presso l’Aula Consiliare del Comune di Melfi.

Il coraggio di capovolgere la piramide

Melfi (PZ), 10 gennaio 2025

Sembra impossibile, eppure cose che per alcuni sono scontate, per altri rischiano (drammaticamente) di diventare inutili e oziose, quasi si tratti di questioni di lana caprina, visto che le sentono tanto lontane da loro mentre ben diversi sono i problemi avvertiti come essenziali.

Sono le aree interne a colmare il divario tra nord e sud

E questo non tra nord e sud del mondo, ma nella stessa nazione, nella stessa regione, finanche nella stessa provincia: basti pensare che in Campania, dove vivo, la provincia di Caserta confina a sud con l’hinterland napoletano – perciò con la zona a più alta intensità abitativa d’Europa – e a nord-est con il Molise, dove la densità abitativa è invece tra le più basse in assoluto. Tutta la parte interna della Campania, del resto, è caratterizzata da territori in preda allo spopolamento, minacciati da un declino che sembra inarrestabile, affetti da un costante desiderio di fuga, con paesi che continuano a perdere gli abitanti più giovani, nei quali non si trovano quasi più negozi e dove da tempo le scuole, le poste e altri servizi essenziali hanno chiuso i battenti.

La Campania, peraltro, non è la sola regione a presentare simili contraddizioni. Una gran fetta d’Italia è stretta nella morsa di analoghi problemi e non solamente quella povera (di mezzi e d’infrastrutture) del centro o del sud, ma anche quella ricca del nord, dove in molte zone cinghiali e caprioli sopravanzano in gran numero le persone: è sulle aree interne che l’Italia finalmente si eguaglia, senza più differenze. La gente si ammassa nelle periferie delle grandi città, spopolando le aree collinari e montane; l’economia e l’alta finanza favoriscono questi flussi per tanti motivi, non da ultimo perché le masse anonime sono più facilmente manipolabili e la politica – persa dietro i sondaggi, divenuti ormai pane quotidiano – sembra incapace di pensare oltre la stretta contingenza, riducendosi molto spesso a rincorrere un immediato consenso.

L’urbanizzazione – meglio, la metropolizzazione – progressiva della popolazione italiana (ma la questione assume confini planetari) sta così causando la lenta morte d’interi territori, con grave danno per tutto il Paese; come nel corpo umano la necrosi di parte del tessuto organico costituisce infatti un danno grave per l’intero organismo, lo stesso avviene quando ci si trova di fronte all’abbandono di una parte del territorio: è la nazione intera a subirne detrimento, perché un territorio non presidiato dall’uomo è inevitabilmente sottoposto a una pressione maggiore delle forze della natura, con il rischio – facile da prevedere – di nuovi e accresciuti disastri ambientali, nonché di assistere alla perdita di una parte significativa di quell’immenso patrimonio artistico-architettonico che fa dell’Italia intera un museo a cielo aperto.

Strutture idonee a stabilire connessioni umane

Nel maggio 2019 i vescovi della Metropolia beneventana dettero l’allarme (cf. doc. Mezzanotte del Mezzogiorno? Lettera agli Amministratori): rifiutando l’idea che ormai i giochi fossero fatti e l’unica possibilità rimasta fosse una sorta di accanimento terapeutico finalizzato a ritardare, quanto più possibile, la morte dei propri territori, esortarono ad agire non in maniera disorganica o, ancor peggio, scomposta, ma attraverso una progettualità profetica, con «un progetto strategico di lunga gittata che miri a privilegiare l’interesse comune, il quale solo può consentire il benessere di tutti, singole persone come enti locali». Non volevano arrogarsi compiti non propri, piuttosto proporre un metodo che, in politica come in economia, tenesse fermo il primato della comunione. Prese avvio allora un percorso che ha avuto i suoi sviluppi (si può, al riguardo, consultare il sito www.faare.org).

Essi erano – e sono tuttora – convinti che un serio progetto per le aree interne potrebbe senz’altro avere ricadute positive, anche sul piano economico, per tutta la nazione. In un contesto in cui i rapporti umani sono più forti e stabili che non negli agglomerati urbani o – peggio ancora – nelle grandi metropoli, risultano difatti più facili anche quei legami di solidarietà che in altri contesti lo Stato deve impegnarsi a garantire con grosso dispendio economico e non sempre con efficienza e – ancor meno – con efficacia. Nei piccoli Comuni, molte persone si prendono cura dei vicini anziani, vigilando su di loro a distanza, come faceva Miriam, la sorella di Mosè, quando il fratello infante, posto in un cesto dalla madre, fu affidato alla Provvidenza. Ebbene, quante persone potrebbero vivere in modo più dignitoso e sereno la propria vecchiaia in questi territori invece che in tante case di riposo, e quanto beneficio economico ne trarrebbe lo Stato se vi fosse un progetto serio per rivitalizzare queste terre?

Illuminante, in proposito, è il film di Riccardo Milani, Un mondo a parte, che attraverso la vicenda di Michele Cortese, un maestro elementare il quale, dopo aver insegnato trent’anni nella periferia romana, con bimbi disinteressati e finanche minacciosi, chiede l’assegnazione provvisoria presso una scuola di Rupe, nell’alta Val di Sangro (si tratta in realtà di Opi, un paesino vicino Pescasseroli, nel Parco nazionale d’Abruzzo).

Nell’estate 2023 scrissi un articolo per una rivista delle scuole per l’infanzia, sostenendo che quella prima esperienza scolastica, in area interna, favorirebbe nei piccoli lo sviluppo di una struttura idonea alle connessioni umane, di un carattere più pronto ad affrontare le difficoltà agendo in autonomia, più idoneo a resistere alle sempre più pervasive pressioni dei social.

Non dobbiamo infatti dimenticare che i nostri ragazzi sono oggi abilissimi nello sviluppare rapporti in rete, ma poco attrezzati per quanto riguarda anche le più banali relazioni nella vita civile, al punto da apparire del tutto incapaci ad affrontare un impiegato dietro a uno sportello, dimostrandosi tanto impreparati a spiegare de visu, a voce e con calma, un reclamo, quanto sono invece abili a gridare la loro rabbia sui social. È quindi di una struttura idonea a stabilire connessioni umane che le persone hanno soprattutto bisogno, di un pensiero capace di elaborare criticamente le notizie per risultare meno manipolabili, per poter agire in autonomia limitando il più possibile i condizionamenti esterni. Ebbene, ritengo che, a tal fine, sia più facile porne le basi in una scuola dell’infanzia collocata in area interna.

Lo stesso potrebbe dirsi per tante attività educative finalizzate a favorire un rapporto diverso con l’ambiente, a sviluppare una mentalità non predatoria, ma dialogica, con i beni che la natura pone a disposizione dell’uomo (ancora una volta esemplare, in tal senso, è il film – già citato – di Riccardo Milani). Nei piccoli centri delle aree interne, a proposito, si potrebbe più facilmente abituare i piccoli al contatto con gli animali: far vedere loro i pulcini o addirittura i vitellini appena nati, far capire loro con quanto amore gli animali proteggono e nutrono i piccoli e che, in natura, uccidere uno dei genitori significa, automaticamente, condannare a morte anche la prole. Tutto ciò rappresenterebbe un miglioramento importante anche per la vita di tanta popolazione anziana.

Una questione decisiva: capovolgere la piramide

Le potenzialità sopraccennate, tuttavia, resteranno lettera morta se mancheranno i collegamenti tra il centro e la periferia. Perché mai un giovane dovrebbe trattenersi in un piccolo paese dell’entroterra fino a quando questo non sarà comunque facilmente collegabile con altri centri dove poter trovare quel che gli manca? Perché non assecondare il desiderio di novità che, soprattutto in età giovanile, è forte già di per sé? Credo che ogni discorso sia destinato a restare senza futuro fin quando non si rovescerà la piramide, fino a quando, cioè, nell’impiantare i servizi non si seguirà un criterio diametralmente opposto a quello che fino ad ora si è di norma seguito.

Mi spiego. Nel costruire nuove strade, nuove reti telematiche, si parte abitualmente dal centro per dirigersi poi verso le periferie, con il rischio – per nulla evitato – che alle periferie non si arrivi e invece ci si fermi a metà strada, per motivi che tutti ben conosciamo: le lentezze burocratiche rallentano spesso i lavori, i prezzi lievitano al punto che il preventivo fatto in partenza dev’essere rivisto e il finanziamento previsto non basta più a coprire le spese, facendo sì che i lavori restino incompiuti. Cosa che si è spesso già verificata e – facile profezia – si verificherà ancora, facendo sì che le zone più lontane e meno servite debbano subire penalizzazioni ulteriori.

Viceversa, capovolgendo la piramide, partendo cioè dalle periferie, sarebbe impossibile lasciare sprovvisto il centro: infatti, non si potrebbero certo lasciare Napoli, Roma o Torino sprovviste di banda larga (e di fatto non lo sono), quando ne fossero stati provvisti i piccoli paesi del Sannio e dell’Irpinia, dell’entroterra reatino, delle valli piemontesi più interne e lontane (che molte volte – troppe! – fanno in realtà fatica ad accedere alla rete in modo veloce e competitivo). Faccio un esempio, piccolo e poco noto, ma che tocca direttamente la mia terra: la strada Fortorina è nata per collegare Benevento a San Bartolomeo in Galdo ed aprire così anche un canale veloce tra Pietrelcina, patria di san Pio, e San Giovanni Rotondo, dove il santo frate è vissuto a lungo e dove riposano le sue spoglie. Se quella strada la si fosse iniziata a costruire partendo da San Bartolomeo in Galdo, cioè dalla periferia, oggi sarebbe ultimata, in quanto finché non avesse raggiunto il capoluogo di provincia sarebbe stata ritenuta di fatto inservibile. Viceversa, si decise di partire da Benevento e così, dopo decenni, il tratto ultimato si ferma attualmente a San Marco dei Cavoti, corrispondente a poco meno della metà del percorso originariamente previsto.

Basti questo per dire che finché non si rovescerà la prospettiva – ciò che starebbe a significare anche un cambio radicale di mentalità –, la distanza tra centro e periferia sarà destinata ad accrescersi sempre più, con ulteriore impoverimento delle aree giù più isolate.

Tuttavia, ciò non si verificherà senza una politica forte, capace d’imporre all’alta finanza scelte che l’alta finanza da sola non farà mai, perché contrarie ai propri interessi. Perché mai, infatti, le ditte, per installare la banda larga, dovrebbero partire da zone con pochi clienti riservando a un secondo momento la copertura di quei territori dove la popolazione invece si addensa? In una parola, perché partire dall’osso quando si può subito azzannare la polpa? Solo una politica forte, degna di questo nome, con un’alta visione di quello che è il proprio ruolo e il proprio compito, potrebbe imporre scelte, facendosi valere non solo di fronte ai potentati economici, ma alla maggioranza stessa della popolazione. Purtroppo – l’ho detto già, e non me ne vogliano i politici presenti – mi sembra che a dettar legge siano invece i sondaggi, che richiedono continuamente di aggiustare il tiro per riguadagnare il consenso eventualmente perduto.

Altre questioni da affrontare

Mi permetto inoltre di porre una questione ulteriore, che potrà essere valutata e discussa – qualora se ne riconoscesse la fondatezza – da chi ha la competenza e l’autorità per farlo: molte cose potrebbero in effetti cambiare se il criterio del numero degli abitanti non fosse l’unico in base al quale assegnare le risorse; seguendo tale criterio, infatti, le Aree interne, povere di popolazione, finiscono per ritrovarsi prive di risorse, e ciò anche se molte volte debbono provvedere a territori vasti, spesso collinari o montani, dove l’orografia rende le comunicazioni più difficili e – quindi – più dispendiose. Perché non tener conto, quando si assegnano le risorse, anche della superficie e della tipologia del territorio a cui la popolazione che ne beneficia deve provvedere?

E non sarebbe possibile istituire tassazioni differenziate per categorie che, lavorando in zone e con volumi diversi, producono anche guadagni fortemente variegati? È giusto, infatti, tassare allo stesso modo un bar situato nel centro di Roma, magari all’uscita delle grandi stazioni ferroviarie o metropolitane, che alle otto di mattina ha fatto già centinaia di caffè e venduto altrettanti cornetti, e i bar dei nostri piccoli paesini che alla sera di caffè ne avranno fatti sì e no poche decine?

È chiaro, però, che questo richiede anche un tributo da parte della nostra gente: se si vuole che i piccoli esercizi continuino a vivere in tanti piccoli paesi, perché – mantenendo viva la dimensione sociale – contribuiscono in modo determinante alla qualità della vita, è infatti necessario che tutti siano disposti ad aggiungere al prezzo da pagare anche un ulteriore tributo in grado di compensare quella qualità di vita che i piccoli esercizi mantengono alta, dal momento che un esercizio commerciale non è soltanto un locale in cui si fanno acquisti, ma un punto naturale d’incontro che offre alla gente delle ragioni di vita. Quando un negozio chiude è un pezzo di paese che muore; quando i negozi non ci saranno più, non ci sarà più neppure il paese. Con tutta evidenza, un piccolo negozio non può tuttavia essere competitivo nei prezzi con un grande centro commerciale: non si può pensare, allora, che gli abitanti dei piccoli paesi facciano spesa nei grandi centri commerciali salvo poi acquistare in loco quelle poche cose che ci si è dimenticati di prendere in città; essi dovranno quindi essere disposti a far vivere i loro negozi pagando qualcosa in più, perché da quelli non acquistano solo prodotti, ma ricevono qualità di vita.

Imparare a lavorare in rete

C’è poi un altro aspetto sul quale riflettere e lavorare insieme. Il primo ostacolo da superare – a livello sia ecclesiale che civile – resta difatti la difficoltà a costituirsi in rete, a unire le forze, giacché l’orizzonte ristretto ha spesso spinto a scelte individuali piuttosto che a fare gioco di squadra, con il risultato paradossale di vedere Comuni molto vicini tra loro costruire nuovi edifici scolastici quando né gli uni né gli altri avevano bambini sufficienti per riempirli. E lo stesso può dirsi a livello ecclesiale, con la moltiplicazione di strutture che poi finiscano per restare inutilizzate. Se cediamo alla tentazione di voler fare tutto da soli per dire a tutti che siamo più bravi degli altri, andremo incontro a un suicidio collettivo: ogni Comune non potrà avere tutto, perché quand’anche trovasse i fondi per realizzare una qualsiasi struttura, non li avrebbe poi per mantenerla in vita. Lo stesso discorso vale per le parrocchie e – ad alcuni livelli – anche per le diocesi. Dobbiamo agire uniti pensando che l’insieme non sia un solo Comune o una sola parrocchia, evitando di mettere in piedi duplicati che non potremo mantenere, servendoci gli uni delle strutture degli altri, spostandoci anche, quando è necessario, perché ormai ci si sposta per ogni cosa (ci si sposta anche nelle grandi città o nelle metropoli, con la differenza che lo spreco di tempo e lo stress che là ne derivano risultano moltiplicati).

Una pastorale per le Aree interne

Cammin facendo, si è andata inoltre manifestando in maniera crescente l’esigenza di mettere a fuoco la questione anche da un punto di vista più strettamente pastorale, poiché le aree interne si trovano a fronteggiare problemi del tutto diversi da quelli con cui sono chiamate invece a misurarsi le aree urbane o metropolitane o turistiche: molti piani pastorali disegnati a livello nazionale, in realtà, sono più tagliati per una dimensione cittadina che non per le zone dell’entroterra (ad esempio, si discute spesso dell’impiego nella pastorale catechistica dei mezzi audiovisivi quando in simili realtà mancano i bambini, dell’utilizzo di Internet quando nei piccoli paesi si fatica ad avere la rete WiFi, di pastorale familiare quando il più delle volte le giovani famiglie sono una vera e propria rarità…).

È per questo che ogni anno (nell’estate 2024 si era già al quarto appuntamento), decine di vescovi (quest’anno erano oltre trenta, provenienti da tredici diverse Regioni italiane, dal Piemonte fino alla Calabria, Sicilia e Sardegna, con la partecipazione dei vertici della CEI, vale a dire del Cardinale Presidente, Matteo Zuppi, e del Segretario Generale, Giuseppe Baturi) si ritrovano per due giorni a Benevento al fine di avviare un confronto con l’obiettivo, se non di enucleare una pastorale per le aree interne, almeno di abbozzarne qualche linea.

Certo, in queste zone – e soprattutto al sud – sembra avere ancora una forte presa la religiosità popolare con le sue tradizioni e i suoi riti che, in molte circostanze, finiscono per prescindere da un vissuto di fede: ci si deve dunque domandare come valorizzare l’esistente, purificando evidenti anomalie ed evitando, al tempo stesso, di gettare quanto vi è di buono assieme all’acqua sporca. Ugualmente complessa da affrontare è la possibilità di vedere nei flussi migratori, sempre più frequenti, un sostegno per i molti paesi oggi soggetti a un decremento progressivo della popolazione, dato che una simile evenienza pone il problema di pensare una pastorale attenta alle relazioni ecumeniche e interreligiose che, allo stato attuale, è in gran parte ancora sulla carta.

“Un mondo a parte”

Mi avvio a chiudere tornando, ancora una volta al bel film di Milani, il cui grido di battaglia è «La montagna lo fa», cambia cioè persone e cose (anche se non sempre, sia detto per onestà, le migliora). Trasferitosi nella piccola scuola di montagna di Rupe, il maestro elementare Michele si trova davanti pochi alunni – una pluriclasse con prima, terza e quinta elementare – in una scuola che rischia di chiudere i battenti e per mancanza d’iscritti e per la tragica lotta scatenatasi tra poveri pure accumunati dal medesimo destino, cancro pervasivo che spinge a dividere le forze piuttosto che ad unirle: a minacciare la scuola di Rupe sono infatti anche le mire del preside dell’istituto comprensivo e, soprattutto, del sindaco del paese vicino di poco più grande, il quale non esita a ricorrere a colpi bassi pur di raggiungere il proprio obiettivo. Si tratta allora di salvare la scuola da un possibile accorpamento, al fine di evitare che il paese faccia la fine di Sperone, un altro piccolo agglomerato di case abbandonato da tutti i suoi abitanti dopo che la scuola era stata chiusa.

Il vero male da combattere è tuttavia la rassegnazione, «che si mangia a morsi, come la scamorza», e la frammentazione, generata da piccole invidie e dal comportamento rinunciatario dei più, che spinge perfino a desiderare il fallimento di chi vorrebbe invece reagire: «E così sono tutti contenti. Tutti perdenti, tutti contenti», dice la vicepreside Agnese a Michele nel commentare la decisione di Duilio, un giovane che ha invece deciso di restare motivando la sua scelta con una semplice affermazione difficile da contrastare: «Perché io qua sto bene mae’! Perché devo andare via da casa mia?».

L’impresa nella quale si coalizzano tutti (personale scolastico, istituzioni e paesani), sarà perciò quella di salvare la scuola aggregando ai pochi alunni del posto bimbi ucraini e nordafricani (quest’ultimi ormai di seconda generazione, pienamente padroni del dialetto locale). «La montagna lo fa»! E in effetti a Rupe Michele diventa un altro: da idealista con i piedi per aria, decontestualizzato (capace di citare ai genitori di Duilio, contrariati dalla decisione del figlio, concetti sulla «restanza» tratti dal libro di Vito Teti), si trasforma in una persona sicura di sé, decisa a tutto pur di raggiungere l’obiettivo.

Il film è ben condotto, anche se con qualche caduta, e gli attori si rivelano all’altezza della situazione, non solo per la bellissima prova offerta da Antonio Albanese (il maestro Michele) e Virginia Raffaele (la vicepreside Agnese), ma anche da tutti quegli interpreti non professionisti, piccoli e grandi, che arricchiscono il quadro, a volte traendo spunto da storie reali, come quella di Duilio, il quale – proprio come nel film – ha davvero messo su un’azienda agricola che produce cereali («I primi cinque chili di lenticchie te li compro io», gli promette Agnese, che l’incoraggia nell’impresa). La stessa parlata dialettale, libera da fronzoli e pudori, va dritta al cuore dei ragionamenti e delle cose. Con Un mondo a parte, Milani mette così il dito sulla piaga, trattando questioni che dovremo affrontare anche noi, rimboccandoci le maniche tutti insieme.

Una parola per concludere

C’è bisogno d’intelligenza politica e d’intelligenza pastorale per ravvivare luoghi in cui la vita rischia di finire e dove – paradossalmente – essa può invece assumere una qualità superiore: perché i giovani che lasciano i loro paesi per i grandi centri, non vanno certo ad abitare a piazza Navona a Roma o nella zona centrale e più chic di Milano; vanno, essenzialmente, a infoltire l’anonimato delle periferie. È dunque qui, nelle Aree interne, dove la vita non vuole morire, che si gioca il futuro della nazione. Da allora, da quel maggio 2019, quando i vescovi – intervenendo sulla questione – ruppero un silenzio che era divenuto assordante, il tema è divenuto ormai quasi di moda. C’è da augurarsi che esso assuma la sua centralità anche nell’agenda del governo e la questione venga finalmente affrontata con rigore, intelligenza e, soprattutto, con una progettualità a lungo raggio.

 

+Felice Accrocca
Arcivescovo Metropolita di Benevento