GIOVANNI XXIII MORIVA 60 ANNI FA

Sessant’anni fa, il 3 giugno, lunedì di Pentecoste, alle 19,45 moriva Giovanni XXIII. Le sue condizioni si erano aggravate senza lasciar spazio a speranze la notte del 31 maggio, al verificarsi di una peritonite. Da quel momento si erano avvicendati al suo letto di dolore i fratelli, la sorella, alcuni nipoti, tutti giunti insieme al cardinale Giovanni Battista Montini. Avrebbero trascorso la loro prima notte in Vaticano – alternandosi al capezzale del Papa, con i domestici, le suore Poverelle, il segretario, alcuni cardinali – pregando, detergendogli il sudore, raccogliendone le ultime parole durante gli sprazzi di lucidità. Tutto «con pietà umana serenissima e devozione sicura della sua fede davanti all’incombente mistero della morte come se fosse avvenimento solenne e soave », scrisse Montini presente nella stanza. Tutto con compostezza. La stessa che si respirava nella piazza. Quella della gente venuta in massa per l’ultimo saluto al Papa, ma senza isteria. La gente che aveva creduto alla sua sincerità, che si era sentita oggetto della sua attenzione e tenerezza: per Martin Heidegger i due fenomeni costitutivi del nostro esistere ma, secondo Heinrich Böll, rimasti assenti troppo a lungo nei messaggeri del cristianesimo.

Angelo Giuseppe Roncalli se ne andava al termine di un’agonia che la forte fibra del suo cuore aveva prolungato, l’agonia di un Papa per la prima volta vegliata dal mondo intero. Al termine della Messa in piazza San Pietro, d’un tratto la stanza semibuia alla quale da giorni in molti volgevano lo sguardo – mentre lassù quelli del Papa fissavano il Crocifisso davanti al suo letto – si illuminò. E la gente capì che il Santo Padre era morto. «Il Papa della bontà è spirato religiosamente e serenamente nel suo appartamento, dopo aver ricevuto i Sacramenti di santa romana Chiesa», così lo speaker di Radio Vaticana, la cui voce risuonò attraverso gli altoparlanti in una piazza San Pietro gremita e stretta in un impressionante silenzio.

Una bella morte – se così si può dire – avendo egli imparato ad amare davvero la vita, pur tenendo – come diceva – «le valigie sempre pronte», rendendosi «familiare il pensiero» del possibile distacco, «pronto a partire per la eterna vita» abbandonandosi con totale fiducia alla «grande misericordia del Signore Gesù». Già al concludersi della prima guerra mondiale, sul Giornale dell’anima aveva scritto. «Voglio una vita sempre più ardente di spirito sacerdotale e apostolico, desidero una morte santa». E sullo stesso zibaldone spirituale sulla porta dei suoi ottant’anni annotava: «debbo tenermi pronto; a morire o a vivere; per l’un caso o per l’altro, a provvedere alla mia santificazione». E ancora: «Devo tenermi pronto a questo ultimo tratto della mia vita, dove mi attendono le limitazioni e i sacrifici, fino al sacrificio della vita corporale, ed all’aprirsi della vita eterna». Un addio, quello di papa Giovanni, che ci appare oggi il suggello di una parabola umana e spirituale consumata nell’impegno – rubando parole a Boris Pasternak – di essere «vivo, vivo e null’altro, sino alla fine», ma pure la conclusione di un’esistenza condotta esclusivamente “quale servizio”, nella consapevolezza che «è solo con l’obbedienza e la pazienza che si possono guidare uomini ed avvenimenti», rubando altre parole a padre Giulio Bevilacqua. E, per chi scrive qui, un congedo che è pure un racconto tramandato in famiglia, generazione dopo generazione, tante volte ascoltato dai congiunti presenti, testimoni di un congedo descritto poi, persino nei particolari, in tante conversazioni con il fedele segretario – poi cardinale centenario – Loris Capovilla. Proprio a lui era toccato raccoglierne le estreme parole capaci di prefigurare quella Chiesa così vicina a quella desideratissima da papa Francesco: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque il diritto della persona umana e non solo quelli della Chiesa cattolica». E ancora: « Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». «Offro la mia vita per la Chiesa, la continuazione del Concilio ecumenico, la pace del mondo, l’unione dei cristiani. Il segreto del mio sacerdozio sta nel crocifisso che volli porre di fronte al mio letto, egli mi guarda e io gli parlo […] Quelle braccia allargate dicono che egli è morto per tutti; nessuno è respinto dal suo amore, dal suo perdono. Ut unum sint!» aveva confidato prima di entrare in coma al suo confessore monsignor Alfredo Cavagna.

Nella stanza d’angolo al terzo piano del Palazzo Apostolico, poi, non solo tutto si era svolto secondo il “Cerimoniale dei vescovi” con il cardinale segretario di Stato Amleto Cicognani a dare inizio al suffragio, ma come aveva più volte chiesto lungo la sua vita lo stesso Pontefice, i parenti avevano recitato il “Te Deum” e il “ Magnificat”. A tarda sera toccava poi allo scultore Giacomo Manzù prendere la maschera del volto e il calco della mano destra di Giovanni XXIII, fermandone nel tempo i lineamenti, poi eternati nel bronzo: due opere che – insieme alle tombe dei genitori del Papa – “colmano” la cripta del Santuario creato attorno alla chiesa parrocchiale di Sotto il Monte, i cui abitanti a centinaia sono da ieri a Roma in pellegrinaggio insieme a molti bergamaschi e bresciani, in particolare di Concesio, il paese natale di Paolo VI.

Ieri pomeriggio è stato il cardinale Angelo Comastri, arciprete emerito della Basilica di San Pietro in Vaticano, a presiedere la Messa di apertura del pellegrinaggio nella Basilica di Sant’Andrea della Valle. Questa mattina i pellegrini si ritroveranno in San Pietro dove alle 10 ci sarà una Messa presieduta dal cardinale Giovanni Battista Re, prefetto emerito del Dicastero per i vescovi, concelebrata dal vescovo di Bergamo, Francesco Beschi e dal vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada, incontrando papa Francesco in udienza subito dopo la liturgia.

Domani alle 9, invece, nella Basilica di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio un’altra Messa verrà celebrata dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi.

Già. Per un Papa considerato santo dalla vox populi prima ancora della canonizzazione ufficiale, si fatica ancora un po’ parlare di san Giovanni XXIII. E tuttavia, anche il ricordo del suo trapasso, oltre ad invitarci a riflettere sul tratto di strada percorso nei sessant’anni che ci separano dalle sue ultime indicazioni, non può che confermare quella che sia nella vita che nella morte frère Roger di Taizé aveva definito «una testimonianza di santità». Ricordarlo significa pure ritenere santo quel «patto di riconciliazione» al quale aveva invitato l’umanità intera intorno al suo letto di morte «che parve allora definitivo» (così Capovilla con il conforto di almeno centoventi messaggi di capi di Paesi di tutto il mondo), ma non lo è stato, e dev’essere, nel traguardo della pace, l’aspirazione di tutti.

Fonte: Avvenire Sabato 3 Giugno 2023